7.

 

IL TALISMANO

 

Sandra

 

Julián mi disse che se non me la fossi data a gambe al più presto non mi sarebbe rimasta altra scelta che entrare a far parte della Confraternita, ma questo mi avrebbe segnata per tutta la vita come una filonazista e non ci sarebbe stato più lui per dire che in realtà ero una talpa, un’eroina che si era messa in testa di smascherare una banda di criminali. Avrebbe potuto anche scrivere all’organizzazione per la quale lui e il suo amico avevano lavorato per tanto tempo dando la caccia ai nazisti, ma avrebbero pensato che fosse una follia: probabilmente non si ricordavano neppure che era vivo, come non si erano accorti del fatto che Salva era morto dopo aver dedicato un’intera vita a fare giustizia. Provai a ribattere che forse mi avrebbero dato ascolto, ma negò decisamente.

«E allora... siamo solo noi due», gli dissi. «Tu sei vecchio e io meno agile ogni giorno che passa. Non ne verremo mai fuori.»

«Siamo in tre: tu, io e Salva. Lui mi ha messo su questa pista e avrà fatto in modo di aiutarci un po’. L’organizzazione, con tutti i mezzi di cui dispone, non è stata capace di scoprire quello che noi abbiamo scoperto da soli. Il momento propizio e il coraggio messi insieme possono più di un’organizzazione. A questo punto qualunque intervento esterno potrebbe rivelarsi sbagliato e vanificare i nostri sforzi. O vai o resti, ma siamo soli.»

«Se mi dovesse accadere qualcosa, vorrei che chiamassi la mia famiglia e raccontassi loro quello che ho fatto.» Presi il tovagliolino azzurro da sotto le posate e gli scrissi l’indirizzo e il numero di telefono dei miei e di Santi. «Se dovesse accadere qualcosa di male a nostro figlio, non credo che Santi potrebbe perdonarmi, ma mi piacerebbe che capisse che non me la sono cercata.»

In quelle settimane mi ero resa conto che è impossibile tenersi lontani dai pericoli. Per quanto me lo proponessi, né io né mio figlio saremmo mai stati completamente al sicuro. I pericoli sono dappertutto, e non possiamo sapere quale di tutti quei pericoli ci ucciderà. Ci sono pericoli che si vedono e altri che stanno nascosti, e non si sa quale sia peggio.

Julián mi ascoltava molto attentamente e mi guardava come se fosse la prima volta che mi sentiva parlare. Poi mise la mano nella tasca del giaccone, che era appeso allo schienale del sedile, e tirò fuori una bustina di plastica con dentro qualcosa.

«Prendi, è un talismano. Adesso ne hai più bisogno tu di me.»

Nella bustina c’era soltanto della sabbia, ma era leggermente brillante e me la infilai nella tasca dei pantaloni. Ormai avevo smesso da un po’ di pensare che Julián fosse un folle. Era un uomo molto saggio e dotato di senso pratico. Era il mondo a essere folle.

Ci mettemmo d’accordo per vederci nello stesso posto l’indomani alle otto, quando presumibilmente avremmo avuto i risultati delle analisi. Se ci fossimo dovuti scambiare qualche messaggio, l’avremmo lasciato sotto la pietra C. E tornai a casa abbastanza allegra, perché la faccenda nella quale mi ero ficcata si stava muovendo, procedeva, perché non ero sola, c’era Julián, e perché per una volta nella vita volevo finire quello che avevo iniziato. Quello che non mi aspettavo era che mi sarei presa un altro spavento.

 

Entrai tutta contenta a Villa Sol. Erano le cinque e mezzo e Fred e Karin avevano tutta l’aria di essersi appena svegliati dopo il loro pisolino: si stiracchiavano e sbadigliavano, come cercando di uscire dal torpore. Mi offrii di preparare un tè e dissero che era un’ottima idea. Fred si mise a guardare una partita di tennis in televisione, probabilmente la Coppa Davis, e Karin salì in camera a cambiarsi, dato che di solito si appisolava sul divano facendo rimbombare tutta la casa.

Dopo aver messo l’acqua sul fuoco, sentii il bisogno di fare pipì e andai in quello che nelle riviste chiamano «bagno di servizio». Per arrivarci si doveva passare davanti allo studio-biblioteca, e vidi che la porta era socchiusa. Questo significava che c’erano ospiti, probabilmente Martín che stava tenendo la contabilità. Non mi conveniva mettermelo contro, per cui mi affacciai per salutarlo, chiedergli come stava e offrirgli un tè. Dentro, però, non c’era nessuno. Fred era tutto preso dalla partita, che commentava ad alta voce, mentre Karin ancora non era tornata giù: probabilmente si stava arricciando i capelli, nel tentativo di riprodurre i boccoli che aveva da giovane. Entrai senza abbassare la guardia, facendo attenzione al minimo rumore ma consapevole del fatto che dovevo vincere la paura e approfittare di quell’occasione. Calpestavo il tappeto persiano che avevo visto sbattere a Frida, perciò non facevo rumore, ma non osai aprire i cassetti, mi limitai a spiare solo quello che si vedeva. Mi avvicinai alla scrivania, quella scrivania a me proibita, e il cuore mi fece un balzo in petto.

C’era una foto di Julián. La guardai e la riguardai. Non c’era scritto niente sul retro, nessun appunto, solo la fotografia. Portava i vestiti di adesso, il giaccone beige che avevamo comprato insieme, con i polsini e il colletto di pelle marrone, e il fazzoletto al collo. Sembrava un vecchio attore del cinema: non si sarebbe detto che avesse sofferto tanto nella vita. La fotografia era stata scattata per strada, in una via del paese. Uscii dalla stanza proibita con il cuore che mi batteva all’impazzata e lasciai la porta come l’avevo trovata. Fred continuava a commentare la partita tra sé, di Karin non c’era ancora traccia. Entrai in bagno, feci pipì, tirai lo sciacquone e mi lavai le mani. E lanciai quasi un urlo quando aprii la porta e mi trovai di fronte Karin.

«Stai bene?»

«Sì, benissimo», risposi un po’ confusa.

«Ho tolto la teiera dal fuoco», disse. «Non smetteva di fischiare. »

«Il tempo vola, non è vero?» buttai lì per giustificarmi.

La porta dello studio era ancora come l’avevo lasciata: a quanto pareva Karin non si era accorta che era aperta e non l’aveva richiusa.

Fredrik continuava a essere tutto preso dalla partita e Karin andò a sedersi vicino a lui. Io preparai il vassoio con le tazze dal bordo dorato, la zuccheriera - anche se nessuno di noi aggiungeva lo zucchero - e i cucchiaini, pensando che forse non chiudevano più la porta dello studio perché ormai mi consideravano un membro della Confraternita, oppure, e il solo pensiero mi faceva venire la pelle d’oca, perché volevano che vedessi che avevano scoperto Julián. Certo, sarebbe stato peggio se nella foto fossimo stati insieme. Per come stavano le cose, c’era la possibilità che non mi collegassero a lui. Ma era davvero possibile? Mi passai la mano sulla tasca in cui tenevo la bustina di sabbia perché mi trasmettesse tutta la sua forza magica e iniziai a versare il tè, poi mi sedetti in quella che ormai era la mia poltrona.

«Credo che andrò dal parrucchiere», dissi passandomi una mano sulla testa. «Sono mesi che non mi taglio i capelli.»

Era vero: i capelli corti erano diventati una criniera e la ciocca rossa si era scolorita. A volte mi facevo la coda. Aveva ragione Julián: quando si ha una verità a disposizione è inutile ricorrere alle bugie. Le bugie si dimenticano e ti fanno finire nei guai, la verità no. Quello che non avevo previsto era che l’idea di andare dal parrucchiere avrebbe fatto impazzire Karin.

«Anch’io!» esclamò. «Anch’io voglio andarci. Voglio farmi una permanente, sono stufa di mettermi i bigodini.»

Karin aveva sempre in bocca la parola «voglio», come se il solo pronunciarla le bastasse ad attrarre a sé tutto ciò che desiderava.

Fred ci guardò sottecchi senza smettere di prestare attenzione alla partita. Nonostante tutto, mi era grato del fatto che tenessi occupata sua moglie.

Io in realtà stavo cercando di avvicinarmi in tutti i modi a Julián. Sicuramente dopo il nostro incontro era andato in albergo a riposarsi e, nonostante mi avesse avvertito di non andare lì per nessun motivo, quella era una causa di forza maggiore: dovevo trovare il modo di metterlo in guardia, di dirgli che lo sorvegliavano da vicino, che era nel mirino della Confraternita e che lo avevano visto in faccia. Però non potevo tirarmi indietro con Karin e la storia del parrucchiere. Lei era sovreccitata. Quando era sotto l’effetto delle siringhe le bastava ben poco.

«Benissimo», approvai. «Se non hai preferenze mi sembra di averne visto uno dalle parti del lungomare. Non sembrava affatto male.»

«Sono stufa di andare dal solito. Voglio provare qualcosa di nuovo», aggiunse ridendo e guardando Fred.

Suo marito stette allo scherzo.

«Buona fortuna, cara», disse e si mise a ridere anche lui.

A quanto pareva Fred non aveva bisogno delle siringhe. Sicuramente faceva in modo di non averne bisogno per lasciarle tutte a Karin.

Il fatto che anche i mostri potessero amare era davvero sconcertante: se sapevano cos’era l’amore allora dovevano sapere anche che cos’era la sofferenza.

Di nuovo sul fuoristrada. Ero stanca di tanti giri e di tanta strada. E se per un attimo mi fossi dimenticata di Julián e mi fossi rilassata dal parrucchiere? Avevo scelto un ipotetico parrucchiere nella zona del lungomare perché era vicino all’albergo, ma non sapevo se ce ne fosse veramente uno.

Percorsi la strada lentamente, cercando di richiamare un ricordo che non avevo. Karin disse che se non lo avessimo trovato saremmo sempre potute andare dal solito. Allora mi sfiorai la tasca in cui tenevo la bustina di sabbia e dopo pochi minuti vedemmo un coiffeur. Non era granché, ma si trovava proprio dove avevo ipotizzato io, per cui era perfetto. Ero molto preoccupata per Julián e preferivo arrischiarmi un po’ anziché rimanere in quello stato di incertezza.

Lasciai la macchina sul marciapiedi, anche se sapevo che un po’ più avanti avrei trovato sicuramente posto. Per fortuna bisognava aspettare: siccome per la permanente ci voleva più tempo, dissi, preferivo che iniziassero da Karin. Nel frattempo sarei andata a cercare un parcheggio migliore.

 

Mi avventurai in direzione dell’albergo. Parcheggiai comodamente ed entrai di corsa: non feci caso al portiere, non girai la testa, ma mi accorsi che mi seguiva con lo sguardo. Decisi di salire direttamente in camera di Julián, e quando ero già in ascensore vidi passare, come un’apparizione o in un film, Martín insieme a un tizio robusto con una bruttissima faccia. Bussai alla porta. Siccome nessuno mi aprì, scrissi su un biglietto «Sono Sandra» e lo infilai nella fessura. Julián aprì e mi fece entrare, controllando che in corridoio non ci fosse nessuno.

«Sei pazza a venire qui», disse arrabbiato, veramente arrabbiato. «Ti ho detto solo poche ore fa di non farlo per nessun motivo.»

«Sì, lo so, ma non ho il tempo di discutere. Quando sono tornata dal Faro, ho visto la tua foto a Villa Sol: ti hanno scoperto, qualcuno ti segue. E poco fa, qui in albergo, mi sono imbattuta in Martín e in un tizio grande e grosso. Non ti preoccupare, ero in ascensore, non mi hanno vista.»

Senza volerlo e senza prestare molta attenzione, dato che non avevo tempo per cose del genere, mi accorsi che la stanza non era affatto male. Non me la sarei immaginata così ampia e luminosa.

«Il tizio aveva per caso un completo e una faccia da asino?»

«Sì.»

«Andavano verso l’uscita o verso il bar?»

«Verso il bar.»

«Comunque non puoi continuare a esporti, questa storia si fa sempre più complicata.»

In quel momento squillò il telefono e Julián esitò un attimo, indeciso se rispondere o meno. Alla fine rispose e riagganciò subito.

«Hanno riattaccato», disse. «Brutto segno. Sicura che non ti abbiano visto?»

«Credo di sì.»

«Forza», disse Julián. «Devi andartene di qui, ma non dall’entrata principale. Seguimi.»

Invece di scendere salimmo una rampa di scale ed entrammo in una sorta di sala macchine dove c’erano altre scale che portavano giù. Non parlavamo. Julián aveva pronta una via di fuga: alla fine arrivammo in cucina e uscimmo dalla porta posteriore dell’albergo.

Julián avrebbe dovuto rifare lo stesso percorso per tornare indietro e avevo paura che il suo cuore non reggesse tutte quelle scale, anche se sarebbe potuto salire solo fino al primo piano e prendere l’ascensore da lì: lui non doveva nascondersi.

Una volta in strada, corsi verso la macchina invocando il talismano e pregando che fosse rimasta dov’era, che non l’avesse portata via il carro attrezzi o che non mi avessero fatto la multa. Il talismano funzionò. Misi in moto e parcheggiai sul retro del parrucchiere. Entrai tutta sudata. Mi tolsi il giaccone e, dopo aver detto a Karin che ero finalmente riuscita a parcheggiare, uscii di nuovo. Mi sentivo soffocare e mi tornò la tosse, come se si fosse solo spenta per un po’ ma non fossi guarita del tutto. Una folata di aria fresca e umida mi diede un po’ di conforto.

Le parrucchiere erano tutte intorno a Karin con una tintura pronta e discutevano di cos’altro avrebbero potuto fare per acconciarle i capelli come nella foto. Karin aveva portato una fotografia di quando era giovane, quando aveva un’altra faccia e i capelli biondi e ordinati. Le parrucchiere le dicevano che si vedeva che aveva avuto dei capelli splendidi, e lei era deliziata come sempre dal fatto di essere al centro dell’attenzione. Mi unii al coro di complimenti e sembrò che lei non pensasse ad altro. Tossii e all’improvviso ebbi un brivido che mi costrinse a mettermi il giaccone, ma poi mi venne caldo e dovetti togliermelo.

Rimanemmo lì dentro circa tre ore. Karin aveva portato con sé uno dei suoi romanzi, ma era così impegnata ad ascoltare tutti quei complimenti che lo aprì a stento. Pagò anche il mio trattamento, consistente nel tagliarmi le punte e nell’eliminare la ciocca rossa uniformando il colore in un castano chiaro con mèche color miele che, secondo loro, facevano risaltare il verde degli occhi. Mi conveniva non attirare tanto l’attenzione: lasciai che facessero quello che volevano e mi portassero su un terreno più neutro per quanto riguardava l’aspetto esteriore. Per di più pagava Karin, che lasciò una mancia sostanziosa. Tutti contenti, quindi.

Mentre tornavamo a casa mi disse che il cambio di look la entusiasmava e che da quel momento in poi sarebbe andata sempre a farsi i capelli da quel parrucchiere. Nel tragitto di ritorno non smise un attimo di guardarsi nello specchietto retrovisore. Si piaceva, doveva vedersi un po’ com’era ora e un po’ com’era nella foto di tanti anni prima. Mi chiesi se quelle iniezioni non li stessero facendo impazzire tutti, se non stessero instillando nelle loro menti malate un’immagine di sé completamente deformata. Tranne Fred, ovviamente, che a quanto pareva non si iniettava niente. Solo una cosa infastidiva Karin, e cioè che io stessi tossendo e starnutendo tanto. Si copriva spudoratamente la bocca con la mano per evitare che le arrivassero i miei microbi.

Il Profumo delle Foglie di Limone
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